venerdì 11 luglio 2014

Oliviero Beha a Libera Uscita: «Il nostro calcio ormai è in fase terminale»


«Il calcio è malato. È  ormai a livello tumorale. È  uno sport affetto dal virus del denaro. Gli italiani se lo fanno piacere perchè non hanno altro. Il Mondiale in Brasile? Lo abbiamo visto con la squadra di casa: il calcio è morto. Conta solo ciò che succede sugli spalti». Parole di Oliviero Beha, giornalista e scrittore, esperto di calcio e Calciopoli. Cronista fuori dal coro, ha pagato cara la sua libertà. IN ESCLUSIVA per LIBERA USCITA, ci parla dello sport più bello del mondo, dello sporco, del marcio e di questo mondiale in Samba. 

Nei giorni scorsi LA7 ha trasmesso le partite del mondiale del 1982: Pertini che esulta, Bearzot con la pipa, l’urlo di Tardelli. Quanto è cambiato in questi anni il calcio? Pochi forse ricordano che lo stesso Paolo Rossi venne sdoganato in Spagna dopo lo scandalo del calcio scommesse. Il calcio era (poco) pulito allora e (molto) sporco oggi?

«All’epoca era un calcio malato, ma embrionalmente. Adesso il bubbone è scoppiato. Ora è ormai a livello tumorale. Il “caso Rossi e Manfredonia”, ricordiamo, si era concluso con delle condanne. Nel calcio, più che in altre realtà sportive e non solo, c’è un virus che si chiama denaro. Quando si parla di fondamentalismo islamico tutti, senza essere esperti, sanno di cosa si tratta. E c’è il fondamentalismo economico. Il calcio e tanti altri ambiti sportivi (e non solo sportivi) sono inquinati dal denaro. Sono inquinatissimi».


Ma il virus non esiste solo in Italia.


«Evidentemente no, ma l’Italia ha meno difese. È stata invasa dai miliardi della globalizzazione calcistica e il tessuto di partenza è debole».

Del Mondiale vinto nel 2006 però si parla poco. Forse che ricordare quel campionato del mondo significa anche ricordare la Juventus e i problemi di Mister Lippi?

«Se vogliamo fare riferimento ai processi di rimozione dalla memoria collettiva, chiedo: abbiamo mai sentito parlare veramente di cosa è stato il Mondiale di Spagna? No. Venendo al 2006 e all’Italia vincitrice... beh... su quell’epoca in cui venne alla luce Calciopoli rimane un alone. La Nazionale, si disse allora, avrebbe dovuto vincere a titolo di sanatoria. Clemente Mastella, che oggi ha qualche problemuccio sul piano giudiziario assieme alla moglie, lo disse anche pubblicamente che sarebbe servita un’amnistia preventiva. E l’Italia portò a casa la coppa. Ma il vero punto è cosa sappiamo oggi veramente di Calciopoli? Restano solo gli juventini che si sentono truffati, gli interisti che si sentono per bene e i milanisti che manco sanno come si sentono. Io, che dissi quello che c’era da dire sulla Calciopoli diffusa, ci rimisi il posto al Tg3».

Insomma, chi tocca il calcio muore?


«Sì. È vero, chi tocca il calcio muore. Mentre il calcio non muore ma cambia pelle. Nel Mondiale del Brasile si è dimostrato come sia morto in campo. Conta solo ciò che succede sugli spalti. E la presidente Dilma Vana Rousseff Linhares, che contava nella vittoria della sua Nazionale, ha fatto male i conti e se la prende in quel posto».


 

Da osservatore e da amante del pallone, riesce ancora ad entusiasmarsi quando vede una partita di calcio?

«Avete presente quando si è innamorati? Bene. Quando si è innamorati si pensa mai all'amata mentre questa siede sulla tazza del water? Direi di no. Eppure è questa  l'immagine che ho del calcio. Per mia fortuna sono stato innamorato anche io e vi assicuro che quando si fanno certi pensieri l’innamoramento passa subito. Io sono stato innamorato del calcio. E figuriamoci se non apprezzo certe giocate: mio figlio gioca, io ho giocato seriamente fino ad arrivare agli Allievi dell’Inter. Le borse sportive sono una presenza costante in casa. Diciamo che niente distrae più di questo sport». 

Lei ha scritto dell’indifferenza degli italiani di fronte ad una Nazionale che non ha giocato. Ma l’orgoglio tricolore esiste o è un orgoglio part-time?


«Abbiamo assistito ad un recitativo: gli italiani si sono messi in scena pro e contro la Nazionale, ma si tratta di finto patriottismo».

Ma perché sarebbe finto?

«È finto perché il meccanismo mediatico ha preso il posto della sostanza. Ciò che si dice diventa più importante di ciò che si vede in campo. Ma questo è un problema semiologico che ci porterebbe lontano».





Resta il fatto che c’è stata indifferenza al ritorno in patria dei giocatori italiani.


«Sì, solo indifferenza, perché la protesta e il disprezzo comportano un mettere a repentaglio cuore e viscere. Quello a cui abbiamo assistito era solo tifo, recitato».

Nei campi di calcio delle periferie cittadine ci sono ragazzini di talento. Ma oggi in serie A ci si arriva per merito? O anche lì scatta la “conoscenza”, la raccomandazione (tanto in uso in Italia)? Insomma tra il calcio di oratorio e il calcio professionistico, in mezzo, che si trova?


«Il calcio non è diverso dal resto del Paese. E perché dovrebbe esserlo? Ci sono ragazzi di talento che vengono rovinati dai padri, padri che vengono rovinati dai procuratori. Ci sono giocatori figli di genitori ricchi, che hanno comperato loro i primi anni di carriera. Poi c’era anche del talento, che è emerso. Ma quanti sono quelli di talento che restano fuori? Eclatante è il caso del figlio di Previti, che è anche un bravo ragazzo, che si è fatto un anno di panchina in Champions League. E, poi, come sempre, ci sono anche quelli sponsorizzati da un partito o dall’altro, ma come accade in qualsiasi cosa in questo Paese. Solo un deficiente può pensare che le cose vanno in un certo modo (cioè male) in tutto, tranne che nel calcio». 




Politicamente quanto sarebbe valsa a Matteo Renzi una vittoria ma, cercando di essere più realisti, una marcia dignitosa dell’Italia in Brasile?

«È difficile misurare certe cose. Diciamo che sarebbe stata in linea con lo stile di un presidente del Consiglio che dice senza fare. Qualche vantaggio, se la Nazionale avesse fatto una figura meno barbina, era stato sicuramente messo in conto». 

Torniamo al tifo per l’Italia. Non crede che, dopo essere stati politicamente (ed economicamente) sbertucciati in Europa e nel mondo, ci fosse la voglia di fare vedere che valiamo qualcosa almeno del calcio?


«Il calcio gli italiani se lo fanno piacere. È uno sport ridotto talmente male, tra casi di corruzione gestioni improbabili, che è difficile pensare che il singolo momento ci possa mettere in luce».

Perché gli italiani se lo fanno piacere?


«Perché ormai non ci è rimasto altro».



Foto fonte internet



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